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Specchio delle mie brame, come proteggere i dati nei computer e nelle reti delle imprese (anche assicurative) italiane?

Specchio delle mie brame, come proteggere i dati nei computer e nelle reti delle imprese (anche assicurative) italiane?

Pishing, pharming, sniffing, tanto per citare alcuni dei “fantasmi” più temuti e abili per attaccare i database. Sebbene ormai ai loro nomi si sia fatto l’orecchio, ancora sfugge alla comprensione razionale dei più quanto e quali mali possano indurre. Il problema è personale, ma anche professionale. C’è consapevolezza di questo?, domando. Percepiscono gli imprenditori, le aziende, i consulenti, il senso del valore di questa ricchezza? Perché solo comprendendone la portata avranno la determinazione a proteggerla. Com’è, da sempre, e noi agenti assicurativi lo sappiamo bene, con ciò che è prezioso.

Viene inviato a tutti i soci UEA, tramite newsletter di giugno 2014, l’articolo di Anna Fasoli che qui riportiamo.

Annoso tema, annoso problema. Eppure, ammettiamolo, intrigante più che mai. Perché a sancire la proprietà di ciò che transita nei nostri computer e reti non basta un vigile e accorto legislatore.

Si parla di vita pulsante, dietro quei caratteri digitati, si parla di relazione, di rapporti di fiducia duraturi, si parla di lavoro.
Ricondurre la memoria dati a un manipolo (per quanto necessario) di norme (peraltro necessarie), che autorizzano o vietano prassi e procedure, sarebbe come concentrare una storia d’amore o di famiglia dentro qualche dozzina di fotografie.
Insomma lo spazio è angusto. Lo spazio va aperto. E riconosciuto, perché ormai, innegabilmente, le mura delle nostre agenzie sono fatte anche di chip.
Il problema, allora, non si limita a una questione di gestione. Oggi confrontarsi con il tema delle informazioni e delle identità, caricate nei database, significa prendere atto di una realtà di fatto che è mutata profondamente, stravolgendo molti dei pilastri su cui si è basata la cultura per secoli, persino millenni. A cominciare dal concetto di memoria.

Una donna (ancora una volta…) chiamata Mnemosine
Racconta la mitologia greca che dall’unione d’amore di Gea, signora della Terra, e Urano, dio del cielo, nacque Mnemosine, dea della memoria e, a sua volta, madre delle nove Muse, depositarie del sapere.
Così, di sabbia e stelle, è composta questa qualità da cui, per la filosofia occidentale, veniva tutta la conoscenza.
Ma adesso?
Adesso Mnemosine non ha più aura di vestale. Sfoggia, invece, competenze di disinvolta blogger, abile conoscitrice di codici binari, algoritmi creativi, programmatrice di immagini. A definirla, e vezzeggiarla, parole come ram, giga, bit.
Anche l’annoso nemico, contro cui battersi, non è più rappresentato dall’incauto, testardo oblio.
Semmai tra i suoi detrattori troviamo la manipolazione dei dati, la persistenza di falsi elementi identificativi, nella rete, nei database, nei sociali network, allo stesso modo del furto d’identità, delle trappole tese per ottenere informazioni riservate, o per diffondere notizie false.
Una volta creata, infatti, una falsa memoria, diventa indelebile.
Entrati in rete, la potenzialità dei dati messi di riproporsi con le stesse caratteristiche è impressionante. Un errore, di qualsiasi natura, si propaga di clic in clic, affermando il suo valore di “verità” oltre ogni buonsenso.
Allora se appare innegabile come ciascun professionista, e tra questi naturalmente in prima fila gli agenti assicurativi, fondi, nel presente, il proprio lavoro quotidiano di relazione con il cliente su questo modello di memoria estesa, dove al buon vecchio encefalo è stato innescato, come protesi costante, la macchina dei chip, come può egli stesso non riconoscere il potere e il valore straordinario che la massa virtuale di dati ha?
Una massa, poi, che è virtuale solo in apparenza, perché le sue ricadute sulla gestione del lavoro, giorno per giorno, sono concrete, concretissime.

Nuovi problemi, vecchie paure
Pishing, pharming, sniffing, tanto per citare alcuni dei “fantasmi” più temuti e abili per attaccare i database.
Sebbene ormai ai loro nomi si sia fatto l’orecchio, ancora sfugge alla comprensione razionale dei più quanto e quali mali possano indurre.
Qualche dato a riprova.
Da una ricerca, condotta da Unicri (agenzia delle Nazioni Unite attiva nel campo della prevenzione del crimine e della giustizia criminale), prima con alcune interviste mirate faccia a faccia e poi con 800 telefonate a un campione rappresentativo della popolazione italiana, è emerso che ben il 25, 9 % degli italiani (più di un quarto degli utenti, dunque) è stato esposto a un potenziale furto di identità – riusciti o meno – nel corso dell’ultimo anno.
Per intenderci quasi otto milioni di persone. Una minaccia oggettiva, dunque, ma ancora non epidemica, che tuttavia è percepito solo dal 38,9 % degli intervistati.
Fa riflettere. Se la paura, epidermica, esiste, tuttavia non passa al libello successivo, quello razionale, che impone l’elaborazione di una strategia per contrastare i danni eventuali.
Aspetto che colpisce se si pensa che nel campione intervistato, rientrano privati cittadini, ma molti di loro esercitano una attività professionale e come tale, hanno la responsabilità non soltanto per sé, ma anche per le identità dei propri clienti.
Insomma il problema è personale, ma anche professionale.
C’è consapevolezza di questo?, domando.
Percepiscono gli imprenditori, le aziende, i consulenti, il senso del valore di questa ricchezza? Perché solo comprendendone la portata avranno la determinazione a proteggerla. Com’è, da sempre, e noi agenti assicurativi lo sappiamo bene, con ciò che è prezioso.

Se l’identità diventa tutt’affatto personale
Altro che spazio dell’intimità, racconto personale.
Se fosse da queste parti, ora, Oscar Wilde non scriverebbe più che “la memoria è il diario che ciascuno di noi porta dentro di sé”, quanto piuttosto, in un certo senso, che è la somma di informazioni che gli altri hanno di noi.
Insomma ciò che mi preme sottolineare è la forza dirompente che questa massa di dati, composta dalle identità dei clienti, raccolte su supporto magnetico, può sortire effetti devastanti per chi l’interessato, ma anche per chi dall’esistenza di quella risorsa fa corrispondere una attività organizzata. Quasi l’identità del singolo diventasse una risorsa condivisa.
Possiamo affermare persino che, cambiando gli strumenti che costruisco la memoria, muta il concetto stesso di identità.
Mi spingo oltre e sostengo anzi che, allo stato attuale delle cose, l’identità non può più essere intesa come un affare soltanto privato. Oggi l’identità appare un bene multisfaccettato, ha peso di oggetto, di cosa preziosa.
Averne la consegna, seppur parziale da parte di un cliente, impone estrema cura e attenzione.
Non mi sto riferendo (solo) in senso stretto al trattamento giuridico dei dati sensibili, ormai noto come problema della privacy.
Il diritto, si sa, è conservatore. Spesso arriva a regolamentare ciò che già è divenuto consuetudine, sta un passo indietro ai tempi, di certo almeno un paio indietro rispetto ai geni dei bit. Qualcuno gentiluomo (o gentildonna), qualcun altro sedotto dal “canto delle sirene” di forzare i limiti e, se altri ne verranno posti, andare oltre e oltre.

Insegnare a tutelarsi anche alle aziende
Se vi ho condotto con me attraverso questo universo complesso e seducente, non è stato solo per trasmettere il fascino (e la paura) che tutto ciò giustamente irradia, quanto per giungere ad una considerazione pratica che ci coinvolge in prima persona.
Come agenti assicurativi, intermediari dei bisogni reali tra il contesto sociale e quello delle compagnie, dobbiamo insegnare agli imprenditori, alle aziende, a chi lavora con i database dei clienti che il problema della privacy va oltre l’uso dei dati sensibili in senso stretto. Il problema della privacy, in realtà, è solo una delle infinite facce che originano dallo stesso tema, cioè la fiducia che lega un professionista al proprio cliente.
Un rapporto che va tutelato al massimo. Perché l’identità ha un valore concreto e il modo in cui ce ne occupiamo dice molto sul nostro stile, sulla nostra attenzione.
Se trasmettiamo al cliente la certezza che proteggeremo ciò che ci ha affidato con cautela, saprà che quella cautela è un nostro segno distintivo e che la adopereremo anche nel momento in cui dovremo offrirgli le nostre competenze professionali.
Un’azienda che si tuteli dal furto, dalla distruzione dei dati, dall’hackeraggio, dalla contraffazione è un’azienda che esprime a chiare lettere i propri valori. Tra i primi, mette quello di investire sulla tranquillità propria e della clientela.

Ma cosa c’entrano gli assicuratori?
Ecco che arriviamo dunque al punto nodale di questo mio dissertare. Che cosa possiamo fare noi assicuratori in questo campo?
Possiamo, anzi, secondo me, dobbiamo saper proporre agli imprenditori e aziende, grandi, medie, piccole, e persino micro, delle polizze ad hoc, che a questa tutela si riferiscano.
Oggi il mercato assicurativo si sta organizzando.
Esistono alcuni grandi protagonisti in questo settore, che da anni hanno intuito come l’esistenza di una memoria virtuale imponga di dotarsi di protezioni reali.
Penso a Das, naturalmente, penso soprattutto al mercato tedesco, a quello dei paesi nordici che da anni ormai stanno diffondendo una cultura di tutela. Perché è questo il solo modo di frenare i fenomeni criminosi, attenuare le paure e non precludersi però, le strade importantissime e necessarie che agevolano la gestione della clientela e la sua cura.
Insomma, una volta ancora, la prevenzione dal rischio diventa la modalità possibile per accogliere il futuro, senza farsi zavorrare dal passato, ma anche evitando di dimenticarlo. Lasciando alla dea Menmosine lo splendido ruolo che le spetta.

Anna Fasoli
Socio UEA

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