Abbiamo davvero bisogno di tatuaggi e baby leggings per conoscere le spese delle famiglie?
Il parere di Anna Fasoli
Mai la creatività sembra sbizzarrirsi come quando si parla di economia, e di economia domestica in particolare. Se ormai nessuno può più negare che esista un filone narrativo ispirato ai fatti (scottanti) dell’economia dell’ultimo decennio, ecco che l’affabulazione interviene anche nei conti dell’Istat. Il celeberrimo Istituto Nazionale di Statistica ci fa infatti sapere che, per conoscere davvero le abitudini di spesa delle famiglie italiane, non possiamo omettere dal paniere di riferimento anche il costo dei tatuaggi e dei baby leggings. Insomma pane, latte, farina, pasta non sembrano né sufficientemente identificativi, né tantomeno esaustivi.
I numeri, ci fa sapere l’Istat, fotografano una volta ancora la realtà di fatto di quella cellula di riferimento, estremamente mutevole e sempre centralissima: la famiglia. Una famiglia che, nei numeri, si racconta e ci racconta quanto il senso stesso di bisogno, necessità, appartenga ad un campo fortemente soggettivo, ma di quella soggettività così diffusa che diventa, per la legge dei grandi numeri, questa volta, oggettiva. Né possiamo far altro che prenderne atto e conoscere, nei dettagli quotidiani, verso che cosa si sposta l’attenzione delle persone. Certo, non sarebbe superfluo interrogarsi sul perché, ovvero sui significati che l’atto di privilegiare alcuni acquisti a scapito di altri rivesta. Materia forse non di immediata presa per un’assicuratrice, anche se domandare è la molla stessa non solo del mio lavoro, quanto delle scelte operative che vengono poi suggerite ai clienti. Anche se non so smettere di pensare: che ne penserebbero le nonne, e bisnonne, i trisavoli, del peso d’un tatuaggio nell’economia? Già, piccoli “miracoli” d’una storia d’Italia anche questi.
http://www.istat.it/it/archivio/180341